Il Brasile che vogliamo: giusto o soltanto ricco?

La frenesia all’interno dei partiti e nella società ci rende difficile discernere gli elementi che stanno effettivamente in gioco: quale Brasile vogliamo? Ricco o giusto? Ideale sarebbe avere un paese giusto e ricco nello stesso tempo. Ma le vie che abbiamo scelto per raggiungere questo obiettivo sono differenti. Alcune lo impediscono, altre lo rendono possibile.

Se vogliamo che sia giusto dobbiamo optare per la democrazia repubblicana, cioè, mettere il bene comune al di sopra del bene privato. La conseguenza è che ci saranno più politiche sociali che andranno incontro ai più vulnerabili, alleviando così la nostra perversa diseguaglianza sociale. In altre parole, ci sarà più giustizia sociale, maggiore partecipazione ai beni disponibili e con questo una diminuzione della violenza. È questo che ha fatto il governo Lula-Dilma togliendo dalla fame e dalla miseria circa 36 milioni di persone insieme con altri programmi sociali.

Se vogliamo un paese ricco scegliamo la democrazia liberale (che conserva tracce della sua origine borghese) all’interno del modo di produzione capitalistico o neo-liberale. Il neoliberalismo pone il bene privato sopra il bene comune. In funzione di questo, preferisce investimenti in grandi progetti e dare facilitazioni alle industrie efficienti perché riescano a conquistare consumatori dei loro prodotti. I poveri non sono dimenticati, ma ricevono soltanto politiche povere.

Thomas Piketty ha dimostrato nel suo libro Il Capitalismo nel secolo XXI che la via migliore fino ad oggi inventato per raggiungere la ricchezza è il capitalismo ma riconosce che là dove si installa, subito si introducono diseguaglianze, perché questo è organizzato per l’accumulo privato e non per la distribuzione dei redditi. E ancor meglio lo mostra in un altro suo libro L’economia della diseguaglianza (intrinseca 2015). In altre parole, le diseguaglianze sono ingiustizie sociali, perché la ricchezza è fatta generando povertà. Impone il blocco salariale, aggiustamenti economici che sono dannosi per le politiche sociali e del lavoro e rende difficile la salita delle classi del piano basso. Predomina la concorrenza e non la solidarietà. Il mercato comanda la politica, è praticata la privatizzazione dei beni pubblici e lo Stato ridotto al minimo non deve intervenire, perché il suo compito è garantire la sicurezza dei servizi di base.

Ancora: la ricerca sfrenata della ricchezza di alcuni implica lo sfruttamento di beni e servizi naturali oggi quasi esauriti, al punto che abbiamo toccato i limiti fisici della Terra. Un pianeta limitato non può supportare una crescita illimitata. Abbiamo bisogno di quasi una Terra e mezzo per andare incontro alle richieste umane, cosa che la rende insostenibile, impedendo la riproduzione stessa del sistema del capitale.

La macroeconomia capitalista è un’imposizione dei paesi centrali, specialmente degli USA come forma di controllo e di allineamento forzoso di tutte le strategie imperiali. Ma come ha osservato uno studioso di macroeconomia dell’Università dell’Oregon, difensore del Capitalismo, Mark Thoma, adesso il capitalismo non funziona più, perché la crisi sistemica attuale pare insolvente. L’ordine capitalistico sta conoscendo il suo limite.

Qual’ è il pomo della discordia dell’attuale politica brasiliana? L’opposizione ha optato per la macroeconomia neoliberale. I leader dell’opposizione proclamano che i salari sono troppo alti, che tutta la Petrobras, come pure la BANCA del Brasile , le Riserve, le Poste dovrebbero essere privatizzati. Conosciamo bene questa formula. Essa è crudele per i poveri e dannosa per i lavoratori, perché accresce l’accumulo e così pure le diseguaglianze sociali. Il capitalismo è buono per i capitalisti, ma dannoso per la maggior parte della popolazione. La ricchezza non può essere ottenuta a spese della povertà e dell’ingiustizia sociale.

C’è anche un elemento geopolitico che non è questo il luogo per esporlo nei dettagli. Gli USA non tollerano che una potenza emergente come il Brasile, associata ai Brics e alla Cina, che sempre più penetra in America Latina. C’è di che destabilizzare i governi progressisti e popolari con la diffamazione della politica e dei suoi leader.

Il PT e i gruppi progressisti vogliono la via della democrazia repubblicana e partecipativa. Intendono garantire le conquiste sociali e espanderle. Non è affatto sicuro che la vittoria del neo-liberalismo le riconoscerà, perché ubbidisce a un’altra logica, quello del capitale che è la massimalizzazione dei guadagni. L’attuale governo studia una via sua propria nell’economia e nella politica internazionale, con la coscienza che, tra non molto, l’economia mondiale avrà una base ecologica. Lì emergeremo come una potenza, capace di essere una tavola apparecchiata per la fame e la sete del mondo intero. Questo dato non può essere trascurato. Ma il punto centrale sarà superare la vergognosa diseguaglianza sociale, la povertà e la miseria con politiche sociali con particolare riguardo alla salute e all’educazione.

L’opposizione ferrea al governo Lula-Dilma ha come motore propulsore la liquidazione di questo progetto repubblicano, perchè fanno fatica ad accettare il passaggio di classe dei poveri e della loro partecipazione alla vita sociale.

Ma è questo progetto che risponde all’angustia che divorava Celso Furtado durante tutta la sua vita: “Perché il Brasile così ricco, è povero e nonostante le molte tante virtualità continua ad essere in ritardo”. La risposta data da Lula-Dilma allevia il lamento di Celso Furtado, è buona non solo per i poveri, ma per tutti.

Comprendere questa questione significa capire il punto focale della crisi politica-brasiliana, che soggiace alle altre crisi.

*Leonardo Boff, columnist del JB on line

Traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato

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